Ascoli, le olive portafortuna e il piede di Maradona

B Marzio è nel capoluogo marchigiano qualche ora prima della gara con il Bari. E incontra qualche mito locale, come il massaggiatore Umberto Vannini famoso per le sue mani e il suo... olio. Chiedetelo a Bierhoff. C'è poi Domenico 'Meco' Agostini che segnò uno dei gol più importanti della storia bianconera con le scarpe di Maradona e Bruno Pignotti: l'ex presidente Rozzi si affidava alle sue olive ascolane per ribaltare i risultati

 

 

Chi ha detto che quello di fisioterapista possa essere l’unica attività di un massaggiatore sportivo. Certo Urbano Vannini nei suoi 24 anni nell’Ascoli si è fatto apprezzare anche per qualcos’altro. Andatelo a chiedere a Oliver Bierhoff che ha continuato a ricevere l’olio di olive fatto da Urbano anche quando è andato a Udinese o a Milano. “Eh no, seconda attività mi sembra eccessivo”, dice ridendo Urbano, che specifica: “Ho sempre curato la terra sotto casa dei miei suoceri e con quello che avanzava dal raccolto facevo dei piccoli omaggi ai giocatori. Con Oliver il rapporto era diventato talmente stretto che alla fine glielo spedivo anche fuori. Siamo rimasti sempre in contatto e quando ha fatto la partita di addio al calcio mi ha anche inviato a casa un dvd con le immagini più belle”.

Perché Urbano non è stato solo il massaggiatore dell’Ascoli, ma un amico. “Ricordo che quando arrivò Casagrande, sua moglie era incinta e fui io a trovargli subito un ginecologo che la potesse seguire duriate la gravidanza e per il parto. Con tutti i giocatori avevo un rapporto speciale perché innanzitutto tra di noi c’era grande stima”. Proprio come quella che Urbano aveva nei confronti del presidente Rozzi. “Un uomo speciale perché sapeva tirare fuori il meglio da tutti. E’ per questo che tanti club importanti mandavano da noi i loro ragazzi per crescere e farsi le ossa: sapevano che qui sarebbero stati trattati al meglio”.

Anche perché poi in panchina c’era un certo Carlo Mazzone, che ad Ascoli è diventato una vera istituzione. “Al contrario del personaggio burbero che tutti hanno imparato a conoscere in tv, Carletto era un grande uomo. Sempre attento ai problemi di tutti: giocatori, dirigenti e collaboratori. Ci teneva molto al rispetto reciproco e se aveva un problema con qualcuno non si faceva problemi a farglielo sapere”. Schietto, diretto, ma sopratutto professionale. “Era talmente attento al lavoro che ricordo una volta, dopo un’amichevole di fine campionato attaccò ad un attaccapanni un giocatore che in campo non aveva fatto quello che gli aveva chiesto. Era un’amichevole, ma per lui contava sempre come una finale”. Di Urbano si fidava come massaggiatore e alle volte lo prendeva in disparte per farsi spiegare bene i problemi fisici dei giocatori senza farli preoccupare troppo.

E pensare che Urbano Vannini, fisioterapista sportivo lo è diventato proprio ad Ascoli. “Quando vivevo a Firenze lavoravo nel campo della neurochirurgia. Poi venni a sapere che qui cercavano un massaggiatore e siccome mia moglie è di queste parti decisi di fare questo cambiamento. Non ce l’avrei mai fatta senza il sostegno di Ivo Micucci, che è stato il mio maestro in questo campo e che ancora oggi è il mio punto di riferimento”. 

In 24 anni tra spogliatoi e muscoli ne ha viste di tutti i colori. “Dalla finale di Mitropa Cup del 1995 contro il Notts County a Wembley alla passeggiata con Antonio Aloisi sulle spalle: si era procurato un taglio che lo faceva sanguinare e non riusciva a camminare. Lo portasi a “cavalluccio” e da lì in poi si iniziò a parlare del problema delle ferite con sangue in campo”. Per non parlare dell’amicizia fraterna con il compianto Andrea Pazzagli del quale porta ancora una foto conservata in camera con la dedica.

Un gol può avere un nome? Si, e anche un soprannome. E’ il caso di Domenico, detto Meco, Agostini. La sua rete in rovesciata con la maglia dell’Ascoli nella stagione 87-88 contro il Pisa è diventata la più bella della storia di questa squadra. “Ho segnato tanti altri gol belli, ma quello credo che rimarrà per sempre nella mente di tutti i tifosi e degli appassionati di calcio”, racconta Meco Agostini. Ma non è tutto, perché c’è qualcosa di magico legato a quella rete.

“Quell’anno il mio compagno di attacco era Hugo Maradona, fratello di Diego. Ogni settimana veniva nello spogliatoio e metteva in mostra tutte le scarpette che il Pibe de Oro riceveva in regalo dal suo sponsor. Noi ragazzini, ovviamente, eravamo invidiosissimi e le guardavamo con bava alla bocca. Una volta gli chiesi se potevo provarne una: mi calzano a pennello e glielo dissi. Lui non ci pensò due volte e mi disse “Tienile allora, te le regalo!””. Ebbene fu proprio con quelle scarpe ai piedi che Meco Agostini segnò il gol destinato a restare nella storia del calcio di Ascoli. “Si chiamavano Puma Mexico ed in Italia non erano mai arrivate, si potevano avere solo in Sudamerica. Erano un guanto, sembrava di giocare senza… e poi erano state indossate da Diego. Portavamo lo stesso numero 40 1/2 – 41”.

E pensare che tra Diego Maradona, il Napoli e Meco Agostini non era il primo intreccio. “Campionato 87-88, il Napoli aveva pareggiato a Como e lottava per lo scudetto con l’Inter che doveva giocare da noi ad Ascoli. Perdevamo 0-1, ma a 10’ dalla fine stoppai un palla sul dischetto del rigore e con il sinistro la buttai in rete”. E via la festa al Del Duca perché quella rete aveva il sapore della salvezza per l’Ascoli che dopo una settimana avrebbe ricevuto proprio il Napoli già campione. “Il giorno dopo il mio gol chiamò Maradona in persona in sede per complimentarsi con me e quando poi giocammo contro mi venne a stringere la mano”. Anche se la salvezza vera e propria quell’anno per l’Ascoli arrivò a Brescia quando fu sempre Meco Agostini il protagonista. “Eravamo sotto di un gol e tutto lo stadio faceva già la festa con la Ola sugli spalti. Poi arrivò il mio gol: fu come spegnere una radio di 35mila voci”.

Maradona da una parte e Boskov dall’altra: i due punti fermi della carriera di Meco. “Quando arrivò ad Ascoli come allenatore io ero poco più che un ragazzino, ma lui aveva una mentalità molto moderna. Dopo la prima partitella di allenamento mi chiamò in disparte e mi disse “Tu ragazzo, domenica giochi con il 9”, io a tratti non ci credevo e per tre giorni non ho chiuso occhio”. Fu solo la prima di una serie di partite da titolare in una stagione che si concluse con la retrocessione per l’Ascoli ma la consacrazione per Agostini. L’anno dopo, sempre con Boskov in panchina Meco fu protagonista a suon di gol, assist e prestazioni da veterano. “E pensare che non avevo neanche 20 anni, ma lui credeva in me e mi trasmetteva grande fiducia: otre che un grande allenatore era uno psicologo strepitoso”.

Un maestro (in panchina) e un amuleto (ai piedi), ecco l’uomo che ha dato il nome al gol più bello della storia dell’Ascoli: Domenico (Meco) Agostini.

Dici Ascoli e pensi subito a Costantino Rozzi, il presidentissimo che seppe portare la squadra dalla Serie C alla Serie A a suon di gol, spettacolo e grandi intuizioni calcistiche. E accanto a lui c’è sempre stato un amico fidato “Al punto tale che quando decise di comprare insieme a me l’hotel Villa Pigna al 50%, ma a patto che decidessi tutto io. Lui non doveva avere voce in capitolo”. Lo racconta così Bruno Pignotti, che ora gestisce il ristorante Cherry One ad Ascoli, ma che è diventato un’icona in città per la sua amicizia sincera con Costantino Rozzi e…per le sue olive ascolane.

“A Costantino non piaceva mangiare più di tanto ma si fidava ciecamente di me e mi volle sempre al suo fianco”. E poi Bruno per Rozzi era anche un piccolo amuleto. “Era uno degli uomini più scaramantici che abbia mai conosciuto: una volta mi chiamò durante un Ascoli-Juventus per portare una porzione di olive ascolane in tribuna. Perdevamo 0-2, neanche il tempo di appoggiare il vassoio accanto a lui che l’Ascoli fece gol. Alla fine il risultato fu 3-2 e da allora dovetti portare sempre le olive allo stadio a 15’ dalla fine dalla partita”.

Si, perché per il presidente Rozzi la scaramanzia veniva prima di tutto. “Era diventato famoso per i suoi calzini rossi sempre in vista, ma anche per il sale lanciato in campo prima delle partite. Per non parlare della tradizione dell’impermeabile: lo lanciava sempre in un angolo appena entrava nello spogliatoio prima di una gara dell’Ascoli. Una volta un ragazzino della Primavera, alla prima convocazione, lo raccolse e lo mise sull’attaccapanni. Non vi dico la reazione di Costantino, quasi lo voleva menare”. Sempre con il sorriso perché Rozzi era un uomo gentile e pieno di vita. “Non l’ho mai visto stare fermo più di 5’, e poi quando parlava gesticolava come un matto”.

Dello stadio Del Duca fu il costruttore, e all’interno di quella che era diventata a tutti gli effetti “casa sua” custodiva un preziosissimo amuleto. “Aveva fatto fondere un centinaio di ferri di cavallo facendoli diventare una statua tenuta sempre allo stadio. Prima di ogni partita la faceva tirare fuori e pretendeva che tutti i giocatori e membri dello staff la toccassero come porta fortuna”.

Scaramantico, istrione, ma sopratutto un gran signore. “Costantino ci sapeva fare e per questo tutti gli davano fiducia, era un uomo di ingegno che ispirava serenità”. E aveva un’idea fissa: portare in alto il suo Ascoli. Fu per questo che ne associò l’immagine del picchio: un animale ostinato, che colpo dopo colpo riesce sempre ad ottenere quello che vuole. Proprio come l’Ascoli che fu di Costantino Rozzi, con la sempre attenta supervisione dell’amico Bruno Pignotti, tra una battuta ed un’oliva ascolana fatta in casa.

Nella foto Umberto Vanini con sulle spalle un infortunato Antonio Aloisi

 

 

 

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